Penelope Aguirre – Juan Vicente Piqueras

Penelope Aguirre o l’apprendimento di un profondo prescindere

Penelope non si inganna. Sa bene di non essere la protagonista dell’Odissea con la O maiuscola ma della sua minuscola odissea sì, fatta di costanza, pazienza e abilità nel tessere poesie d’amore e solitudine. Poesie che chiedono aiuto e fanno compagnia.
Penelope sa che sia la mitologia greca che la storia della poesia spagnola le hanno attribuito il ruolo secondario di regina abbandonata, donna di casa, che tesse alla penombra della sua attesa. Conosce e accetta il suo destino, assediata dallo sconforto e dal disinganno. Sa che Nessuno, a modo suo, la ama. Sa che la rassegnazione non è meno onorevole dell’indignazione. E sa che lei non è una donna rassegnata né indignata ma una persona degna che ha la fortuna e la disgrazia di capire gli altri, e per questo incapace di giudicarli.
Tesse e scrive per farsi compagnia, per cercare di comprendere quel che le accade e anche ciò che non le accade. Scrivere è il suo modo di piangere, pregare, aspettare, ringraziare, chiedere perdono. È la sua maniera di stare da sola, di capire ciò che avverte, di sentire, vivere, e imparare, verso dopo verso, a prescindere.
Penelope sa che a convertirla nella madre di Ulisse sono stati il suo modo di amare e la sua infanzia ferita. A volte pensa che forse è stato per questo che lui se ne andò in guerra, che l’offesa a Menelao non fu che una scusa, che il lungo ritardo nel ritorno a Itaca non è facile da spiegare per un marinaio esperto come lui.
Diciamoci la verità: senza Penelope sposamadre che tesse e disfa, che aspetta e scrive nell’attesa, non ci sono sirene, circi, nausiche, polifemi e odissea coniugale che tengano. Penelope lo sa. Sa bene che è dal gomitolo sul suo grembo che proviene il filo di Arianna che guida Ulisse nel suo ritorno. Penelope è debole ma non ingenua. Io sono l’abbandonata di questo regno, il mendicante che guarda dietro il vetro. Quando lei era ancora una bambina, nel dopoguerra, suo padre venne assassinato. Lei non vuole più abbandoni. Vuole soltanto amore e mare. E sin dal primo verso va fino al mare, suo unico confidente, per chiedere aiuto, e il mare le risponde: aiuto. Isolata, afflitta, solo il mare a farle compagnia come un animale equivoco, come una triste fiera compassionevole. Telemaco non può, non deve essere il depositario del suo disinganno né l’erede ineluttabile della sua infelicità. Soltanto il mare. Soltanto l’amore. Il dopoguerra di Troia fu molto duro.
Itaca – tutto il libro – è un lamento d’abbandono e attesa, e del frutto nato dalla sua segreta unione: la speranza. Penelope guarda il mare che la isola e l’accompagna, il tenue azzurro dove ti sei perso, e ritorna al suo minuzioso compito quotidiano di tessere e disfare le sue poesie, che nessuno conosce: chi è lo straniero che vorrebbe comprovare il tuo lavoro?
È un lamento davanti al mare. Al mare chiede aiuto e compagnia e musica. Lo vede come una enorme lacrima slegata, canta al suo ritmo, scrive sulla linea dell’orizzonte il suo canto di marinaio in bilico, senza chiudere occhio (ricordo che pensavo che la mia migliore risposta era di non dormire), tesse la sua sonora stuoia che aspetta i passi di chi è andato via, perché l’attesa suona: mantiene l’eco di voci andate via…
Ulisse, da parte sua, fa fatica a tornare al grembo materno e coniugale, si lancia nell’avventura, si perde per quei mari degli Dei aspettando di vedere quel che accade, cercando non sa bene nemmeno lui cosa, ciò che si ostina, davanti a tutti e forse a se stesso, a definire ritorno, o semplicemente vita.
Ma Itaca è dentro, o non si raggiunge. In ogni caso è l’amore di Penelope che gli permette di andare di Calipso in Circe, di passione in isola. Senza quell’eterno tessere e disfare, senza quell’attesa tenace che attrae e respinge i pretendenti, senza quella infinita maglia di lana azzurro orizzonte per intimi inverni, Ulisse sarebbe soltanto un marinaio che si è smarrito, un goffo timoniere, un uomo alle intemperie. Lui sa di poter viaggiare soltanto se Penelope aspetta il suo ritorno. L’Odissea è anche un’ancestrale versione del matrimonio, tanto ripetuta da esser diventata volgare: il marito chissà dove e la donna a casa ad aspettare, a tessere, a respingere i pretendenti con i ferri da maglia, con la poesia.

Di quando in quando Ulisse, da qualche porto il cui odore gli ricorda le notti d’amore che cerca, la chiama per telefono, non soltanto per sapere come sta e dar segno di vita o dire che sta per arrivare, cosa che – dopo tanti anni – la sua sposa crede a fatica, ma per assicurarsi che lei continui ad aspettarlo. Non so se lui sa che la sua audacia e la sua odissea dipendono dalla pazienza di Penelope, dalla fiamma che soltanto lei mantiene viva, dall’amore famelico che provoca e alimenta la sua fuga, e attende il suo ritorno. Non so se Ulisse sa che l’attesa di Penelope è il vento che riempie le vele della sua nave. Però so che leggendo Itaca uno pensa: Povero Ulisse!, dopo aver pensato: Povera Penelope! E che questi due “poveri” tengono insieme, l’uno con la sua andata, l’altra con la sua attesa, il filo di voce e di Arianna che parla e unisce queste poesie.
Ci sono giorni, ci sono poesie, in cui Penelope guarda l’orizzonte con l’avidità del fuggitivo, con il desiderio di andarsene, di sfuggire al suo destino, pur sapendo – più che sapere lei sente – che non se ne andrà mai, che non abbandonerà mai Itaca perché Itaca è dentro, perché Itaca è lei. E perché il talamo nuziale è stato costruito in una vecchia pianta d’ulivo che ha ancora le sue radici piantate nella terra e non può essere spostato. In Penelope disfa sente che c’è sempre adolescenza e nulla nel tramonto, e mentre si identifica con quella luce che sembra stia andando via ma più che andarsene si spegne, diluendosi in se stessa, sente come uno scoppio di pazienza (che) avvolge il mondo in soavi abbracci di cenere.
Penelope non si inganna. Sa che più forte della paura che Ulisse non torni è che lui torni senza essere più lo stesso (Il benvenuto) o, peggio, che ritorni e non sia lui ma un altro uomo. (L’estraneo). Sa che Ulisse non è quel che è. Lei sa bene perché Eschilo lo chiamò figlio di Sisifo, perché Calderón lo volle protagonista degli incantesimi della colpa. Penelope conosce bene la sua condizione e anche quella del suo sposo. Io sono per lui peggiore di un tradimento: sono inspiegabile proprio come lui. Sa che la sua costanza, più forte della stanchezza, è sua nemica, e al tempo stesso, il suo rifugio. Sa che tutto questo è un sogno mendìco: perché, senza dubbio, avere non è da noi, ma sognare disperatamente sì.

Sa anche che durante l’attesa, senza la necessità di uscire da Itaca, ci sono viaggi e avventure, selvagge traversate che nulla hanno da invidiare a quelle di Ulisse, che non tutto è desolazione e solitudine, che nella tela che lei tesse, nelle sue poesie, è raccontata e cantata la storia della sua vita, il suo sangue, la sua gioia, la bimba stupita che non ha mai smesso di essere, tutto il suo amore.

Scritto tra il 1969 e il 1971, e pubblicato nel 1972, Itaca è per la poesia spagnola del Ventesimo secolo quel che è Penelope per la mitologia greca: una voce ignorata, un clamore sussurrato, una verità desolata e trasparente, una mano tesa e vuota, una poesia d’amore che chiede aiuto, una donna che aspetta, vedova di certezze e comprendendo che l’unica cosa possibile è morire accanto a te in un letto o in qualsiasi altro luogo, accettando il mio sonno e la tua veglia come l’apprendimento di un profondo prescindere che un giorno sarà definitivo.

Un libro emozionante che si chiude con un verso che sembra un epitaffio ma è invece una imperiosa massima di vita, la semplice e scioccante comprensione della propria solitudine:
Francisca Aguirre, accompagnati.
E con il felice paradosso che questa solitudine, nudità, autenticità, possano farci compagnia oggi nelle nostre attese di Itaca, nelle nostre intime guerre e dopoguerre di Troia.
È bene ricordare che Penelope tesseva e disfaceva un sudario.

 

Juan Vicente Piqueras

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