Penelope: la solitudine come destino

Sarà l’eterogenesi dei fini, o qualche altra imperscrutabile deliberazione del Caso (o chi per esso), ma è innegabile che gli orrori sono spesso letame da cui germina il sublime. L’immonda mattanza della prima guerra mondiale ispirò a Thomas Stern Eliot, premio Nobel per la letteratura nel 1948, The Waste Land, La terra desolata, poema angoscioso, bibbia della disperazione.

La bellinuità nazista si tradusse per Picasso in Guernica, il più lacerante urlo di rabbia contro le atrocità della guerra, contro la sopraffazione dell’uomo sull’uomo. Il franchismo fu la pagina buia della Spagna del secolo scorso. Produsse atroci violenze, lutti, devastazione sociale. Ne fu emblema la fucilazione di Federico García Lorca, poeta squisito, colpevole agli occhi di una società virile, virilizzata ed ergo militarizzata di essere omosessuale.

Francisca Aguirre, nata ad Alicante nel 1930, era bambina quando il generalissimo Francisco Franco si impadronì del potere – nel 1939 – e instaurò la sua personale dittatura. Quella stagione politica le sconvolse la vita. Il padre, il pittore Lorenzo Aguirre, fu arrestato, torturato e ucciso nel 1942. Non è un caso se la sua prima raccolta di poesia, Itaca, apparve soltanto nel 1972, quando il franchismo lentamente iniziava a disgregarsi. Le valse il premio Leopoldo Panero, cui ne sarebbero seguiti altri. E ora la Spagna la celebra come una delle maggiori poete nazionali.

Brigidina Gentile, studiosa della figura di Penelope, propone al pubblico italiano quella prima raccolta. Con una traduzione amorevole e puntigliosa, che restituisce in pieno le infinite suggestioni sollecitate dai versi. Eliot, profondamente cristiano, nella Waste Land descrive un’umanità disorientata, annichilita, cui indica la necessità di ripercorrere il mito della guarigione (il Graal e il Re pescatore) per rigenerarsi, recuperare la fertilità perduta e riprendere la propria epopea. Anche Aguirre si appropria di un mito – la vedova bianca Penelope, reclusa nella petrosa Itaca – ma con percorso inverso, perché scende nelle profondità della propria anima, la sonda, e da lì manda il grido d’aiuto, al mare, che apre la raccolta e che riceve in risposta soltanto un’eco. La solitudine s’impone come suo destino. Il particolare non è compiaciuto intimismo, ma un punto di vista che si proietta sul generale, sull’universale. Con voce potente e ammaliante – una fascinazione che dura dal primo all’ultimo verso – Aguirre mette in scena i suoi fantasmi, che sono i fantasmi della Vita. “Equivoco” è termine che ricorre spesso, come appunto può essere equivoca, ambigua, la vita, tessitura di luci ed ombre. Equivoco è anche il mare, agognato orizzonte di salvezza, “Minotauro acquatico”, da cui mai si stacca lo sguardo di Penelope/ Francisca. Consapevole, come la sua mentore mitica, di essere «padrona/del lento e disastroso Impero dei suoi giorni». Consapevolezza da cui, nel verso conclusivo, sembra attingere la forza di guardare oltre: «Francisca Aguirre, accompagnati».

 

Giuliano Capecelatro
Leggendaria 126 / novembre 2017, pag. 65

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