Dodicesima uscita della collana di narrativa latinoamericana A Sud del Rio Grande, diretta da Rosa Maria Grillo (che nel volume firma una puntuale premessa), questa Penelope, volta all’incrocio con un’alterità trasgressiva e trasversa, e sulla scia tanto de La bambola di pezza, del chicano Alejandro Morales, che dell’odeporico Sulla strada di Paros, di Jose Enrique Rodo.

Il catalogo delle autrici – tutte ugualmente impegnate nel riuso del mito classico a fini interpretativi della realtà contemporanea, e che in vario modo affrancano dalla staticità del ruolo la Penelope della vulgata – comprende poetesse, narratrici, autrici di teatro. La Spagna, è bene ricordarlo, risulta qui un paese fra gli altri, nell’ampio scenario dell’ispanofonia. Abbiamo: Claribel Alegría (Nicaragua); Libia Brenda Castro Rojano ed Esther Seligson (Messico); Pastora Hernández e Miriam Ventura (Repubblica Dominicana); Tere Marichal Lugo, Carmen Valle e Lourdes Vázquez (Porto Rico); Aida Toledo (Guatemala); Rima de Vallbona (Costa Rica); Francisca Aguirre, Luisa Castro, Tina Escaja, Lourdes Ortiz, Itziar Pascual e Ana Maria Romero Yebra (Spagna). Né mancano, in appendice, altre voci, quelle del portoricano Alfredo Villanueva e dell’italiana Gabriella Musetti, che affrontano il tema anche con testi poetici (ma presenti, sul piano metalinguistico, come autori rispettivamente della introduzione e della post-fazione). Nel suo paratesto Villanueva inscrive la raccolta antologica nell’alveo di quel “femminismo postmoderno” la cui ottica binaria “fa del maschio, in questo caso Ulisse, l’avversario quasi astratto, modello di una dicotomia di carattere ontologico, tra la donna e l’uomo”.

Un esempio di riscrittura potentemente suggestionata dalla figura omerica della regina di Itaca e rintracciabile, in ambito italiano, nel poemetto di Rosaria Lo Russo, Penelope (Edizioni d’if, 2003), uno di quei testi palincestuosi che lottano con l’ipotesto attraverso tutte le indocilità e le asprezze concesse dalla ricerca linguistica (in primis allitterazioni, paronomasie, ribalderie del significante) e dalla fiducia (o sfiducia?) nelle possibilità di liberazione nel linguaggio, in ogni caso denunciato presso il lettore come portatore di falsa coscienza simile a quella presente nella Storia.

Le voci femminili di lingua spagnola qui raccolte sembrano sentire di meno il bisogno, dirò cosi, di accanimento fonetico (e di tensione translinguistica), tuttavia la forma è pur sempre sentita come capace di tendenziosità: non ad altro sembra dovuto il frequente ricorrere, da un’autrice all’altra, alle linee scarne del mottetto, alla secchezza epigrammatica. Ma il filo che intriga una all’altra le pagine di questo macrotesto e soprattutto l’intenzionalità dialogica, proprio quella di marca bachtiniana, per la quale l’individuo, cosi come la cultura, non possono vantare un proprio territorio interno, che tutto si trova, sempre, al confine di due coscienze, di due soggetti. E grazie alla loro tensione al dialogo che i brani tradotti da Gentile (con testo a fronte nella sezione dedicata alla poesia) evitano angustie esclusivistiche e settarie e vanno oltre i moduli di ‘genere’. “Quella che emerge […] non è una Penelope ‘femminista’ o, per ipercorrezione, machista: i testi selezionati, e tradotti con competenza, mostrano la poliedricità e polivalenza del personaggio sottraendolo all’immagine stereotipata della tradizione ma senza cadere in una prevedibile e banale anti-Penelope” (Grillo).

La relazione ipertestuale, nelle nostre autrici, viene dunque focalizzata sul mito della regina di Itaca. Mosso da un ‘femminile’ tanto concreto quanto non prevedibile, il “fare anima” di queste pagine va in mol- teplici direzioni, e le percorre liberamente. La categoria sottesa sembra essere quella della intersecazione; la metafora, quella di una rete: la tela di Penelope, appunto. La cui trama non implica il disumanizzato princi- pio femminile di Circe, la “cruda incantatrice”, l’uxoricida, la maga che gioca coi veleni; né quello di Calipso, gia nel nome (dal greco calupto = nascondo) votata a personificare ignote profondità marine.

L’altra Penelope non sembra da inscrivere nella tradizione di quel “ritorno a Omero” che ha prodotto, in tempi e modi diversi, tanta trasformazione letteraria di secondo grado (da Telemaque di Aragon a Naissance de l’Odyssee di Giono; da – se vogliamo – Ulyisses di Joyce a Itaca per sempre di Malerba). Certo, Omero (uno o tanti in uno, uomo o donna che sia stato) e anche in questa antologia l’antiguo autor il cui corpo testuale subisce “correzioni”, “devalorizzazioni”, “amputazioni” severe, ma solo in virtù della necessita d’approccio a un unico personaggio, sentito come emblematico, e in grado di far vibrare nel profondo il sentire femminile oggidiano. Le Penelopi che incontra il lettore sono, come il loro archetipo, figure complesse, donne che, più che attendere, tramano una “tela-testo” (Gentile) il cui filo è il destino stesso: non è forse vero che Ulisse giunge alla fine del suo viaggio quando le mani della sua sposa finiscono di tessere la tela? Nell’incessante andirivieni della spola, Penelope finisce per consistere in ciò che tesse: “Soy el doble de mi misma que se /existe y desexiste” (“Sono il doppio di me stessa che si fa e si disfa”, Escaja); che è anche i- dentità sospesa fra il ricordo e l’oblio: “Frente a su bastidor / desesperadamente, / ella intentaba recordar un nombre, / solo un nombre: / el que gritaba Ulyses por las / calles de Itaca” (“Davanti al suo telaio, disperata- mente, / lei cercava di ricordare un nome, / un nome soltanto: / quello che Ulisse gridava per le strade di Ita- ca”, Aguirre). La solitudine, divenuta perfetta come quella dell’acrobata (l’altro virtuoso del filo), non ha più bisogno dell’oggetto del desiderio: chi ha tessuto troppo a lungo la nostalgia vuole ora “solo la urdimbre / que enlaza palabras y pliegues, / alientos y sombras./ Que no regreses nunca, amor. / Solo el telar y yo, y mi deseo” (“solo l’ordito / che intreccia parole e pieghe, aliti e ombre. / Non tornare mai, amore. / Solo il telaio ed io, e il mio desiderio”, Escaja); “Preferible, Odiseo, que no vuelvas” (“E preferibile, Odisseo, / che tu non torni”, Alegría). Ulisse invitato a non tornare. La fedeltà di Penelope è divenuta contraddittoria, incerta, e a volte solo fisica, a volte solo mentale (a volte Penelope è totalmente infedele, o non più coinvolta…): “Il mio cuore è piu fedele del mio corpo” (Castro Rojano, nella sezione narrativa); “Musicando para si / El nombre de Ulises / Penelope hizo el amor / A cada uno / De sus ambiciosos pretendientes” (“Sussurrando solo per sé

/ Il nome di Ulisse / Penelope fece l’amore / con ognuno / dei suoi ambiziosi pretendenti”, Toledo); “Cuando vuelvas, Ulises, / no encontraras mis brazos anhelantes / ni mi boca dispuesta” (“Quando tornerai, Ulisse, / non troverai le mie braccia anelanti / né la mia bocca in attesa”, Romero Yebra).

Anche se il rapporto Penelope-Ulisse risulta frantumato, liquido per effetto del disambientamento post- moderno, i due restano “vicini”, anche quando non più sposi e amanti. Conservano una polarità. Che richia- ma alla mente una struttura del pantheon greco: la coppia Hermes-Hestia. L’esistenza dell’uno implica quella dell’altro, secondo una complementarità che presuppone tensioni interne e caratteri ambigui. Sebbene la voglia di andare non sembri più solo appannaggio di Ulisse (“Anche io sono partita”, dice una Penelope viaggiatrice), il modo di esperire lo spazio e il movimento – nelle pagine di cui si sta dicendo – è ancora quello elaborato nella Grecia arcaica, con Ulisse-Hermes a rappresentare l’erranza, gli imprevisti dell’esterno, l’elemento centrifugo, mentre Penelope-Hestia rimane nell’oikos, il focolare circolare che, come un ombeli- co, radica la dimora alla terra. I suoi simboli sono ancora quelli della permanenza e del ripiegamento su se stessi. A ben vedere il viaggio della Penelope contemporanea è il viaggio interiore, “senza bussola e senza destinazione” (Castro Rojano). E tuttavia, accanto a questa sensazione di immutabilità, il lettore avverte che Penelope è ora davvero “altra”, e lo sfondo mitico che la riguarda non è tutto curvato su Hestia: c’è anche Hermes, che la rende in qualche modo inafferrabile, ubiquitaria. Del resto, fra le pieghe del mito, in una tra- dizione secondaria, è dato trovare una Penelope che con Hermes ha generato Pan, il dio-capro dell’istinto e del desiderio. Proprio quel dio che salverà Psiche dal suicidio. La voce dell’ “altra” Penelope, quando chiede: “?Que hay que hacer, amor, con el deseo?” (“Che si deve fare, amore, con il desiderio?”); quando sussurra: “Más allá de las pieles, de las palabras / solo el deseo esixte” (“Oltre la pelle, oltre le parole, / solo il deside- rio esiste”, Escaja) ha un suono profondissimo.

 

Mariano Bàino

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