«Penelope e mito e specchio»: da queste parole tratte dalla presentazione che la scrittrice portoricana Lourdes Vazquez fa della sua poesia «El tejido/La tela» (p. 85) potremmo cominciare la nostra riflessione su questa originale e stimolante antologia, perche ben esprimono, nella loro contrapposizione antinomica, quel crocevia di pensieri e azioni, di identificazioni e prese di distanza, di rivisitazioni e sovversioni, che quest’antichissima figura ha suscitato lungo i millenni che ci separano dalla sua creazione in un poema fondante per la cultura occidentale quale e stato l’Odissea. Perche specchio, perche mito? Se, come specchio, riflette, le stiamo attribuendo una funzione mimetica, grazie alla quale ci troveremmo dinanzi alla riproposizione realistica di una donna della Grecia preclassica, custode della casa prima che regina, madre di un giovane frustrato e animoso, prudente reggitrice delle proprietà familiari minacciate dalle orde dei Proci, ma soprattutto
sposa fedele. Fedele oltre ogni resistenza di sopportazione, sia per il lungo tempo trascorso dalla partenza del marito e per la mancanza di notizie, sia per l’età e l’aspetto non sciupati dagli anni, che la rendono oggetto di un desiderio non solamente venale dei pretendenti, e magari una donna che dobbiamo presumere sfiorata dalla tentazione o solo dalla stanchezza. Penelope scaltra, secondo la tradizione, che s’inventa uno stratagemma tanto inusuale quanto efficace per mantenere a bada la scelta forzata di un nuovo sposo: quella tela incessantemente tessuta e disfatta a cui il suo nome sarà legato per sempre.

Concreta, dunque, fisica e carnale Penelope. E il mito, allora? Il mito che allontana ogni collocazione in situazioni quotidiane e riproducibili, che stemporalizzà i gesti e le figure, che dissolve nell’archetipo collettivo ogni individualità? Eppure, Penelope e anche questo, e mito, e lo e diventato non per la sua dipendenza nella narrazione dalle gesta di un uomo leggendario (e mitico anch’esso), ma grazie a una propria, autonoma, originalissima rete, quell’eccellenza, unita all’astuzia, considerata dote peculiarmente maschile (sarà un caso che l’eroe più astuto sia stato proprio Ulisse?), e che le serve per proteggersi da sola in un mondo di maschi, in cui il discorso femminile non può superare la soglia del privato, del domestico, confinato com’e a un’esistenza fra le ancelle e gli oggetti quotidiani (fra cui spicca il telaio). Eppure Omero ce la descrive “stupefatta” di fronte all’ingiunzione, sia pur affettuosa, di Telemaco di non intromettersi nelle cose degli uomini,
quando, nel Libro Primo, ella, scesa dalle «superne vedovili stanze», supplica il cantore Femio di non rivangarle il dolore rievocando le gesta della guerra di Troia. Lo dice ferma sulla soglia della sala dove sono adunati i Proci per il banchetto, il velo a coprirle la chioma, accompagnata da due ancelle, mentre viene cosi apostrofata dal figlio:

Or tu risali
Nelle tue stanze, ed ai lavori tuoi,
Spola e conocchia, intendi; e alle fantesche
Commetti, o madre, travagliar di forza.
Il favellar tra gli uomini assembrati
Cura e dell’uomo, e in questi alberghi mia
Piu che d’ogni altro; pero ch’io qui reggo.
(tr. di Ippolito Pindemonte)

Non le resta che tornare nel suo spazio circoscritto, dove potrà dare sfogo al pianto, fino a che la pietosa Pallade non le invierà un riposante sonno.
Ma e proprio la, nel luogo deputato della donna, dove Penelope forgerà le sue armi di difesa. Non quelle acuminate e cruente a cui sono abituati i maschi, quelle che anche Ulisse non abbandona mai, di cui si servirà per una strage e un altro spargimento di sangue al suo ritorno a Itaca. No, l’arma di Penelope e affidata a uno strumento pacifico e insospettabile, domestico e familiare: il telaio. Compagno fedele e silenzioso dell’inganno, il telaio assume addirittura sembianze antropomorfe nella riscrittura teatrale della spagnola Itziar Pascual (Le voci di Penelope, pp. 178-180), e compone versi in suo onore nella speranza che Atena lo trasformi in quel maschio che la regina crede di accarezzare quando lo sfiora lentamente.

Pochi oggetti racchiudono tante risonanze simboliche e metaforiche quante ne racchiudono il telaio e le azioni ad esso collegate. Tessere, tramare, filare, ordire, intrecciare, annodare, tagliare, e ancora spole, conocchie, tele, fili, nodi, colori, forbici… Come non riconoscere la tela del destino, le trame degli inganni, i fili della vita, intrecciati in arazzi e d’improvviso tagliati? Un proliferare di immagini metaforiche nate in quest’ambito semantico sono ascrivibili a pressoché tutte le culture antiche, in ogni parte del mondo. Le tre Parche o Moire, a cui il mito greco affida il fato di ciascuno, si limitano ad attribuire ad ogni esistenza la quantità di filo che sarà tessuta e poi tagliata. Certe espressioni ancor oggi in uso, quale quella della vita appesa a un filo, conservano, nella metafora morta, ancestrali credenze comuni a tutti i popoli. E una curiosa assonanza rivela il greco con quel mito di cui Penelope si fa portatrice. Penelope, nel cui etimo rinveniamo non solo un secondo sinonimo di filo, ma una specie d’uccello marino, l’anatra mandarina, di cui pure qualcuna delle scrittrici dell’antologia sembra essersi ricordata, quella stessa Lourdes Vazquez che scrive:

«Soltanto tu conosci la rotta delle oche nella notte» (p. 86).

Se tramare conduce inevitabilmente al concetto d’inganno, altre accezioni del tessere ci riportano a quell’ambito semantico della tessitura del destino, che e, per tutti gli umani, mortale. E forse non si e riflettuto abbastanza sul fatto che la tela che tesse Penelope e un sudario, un drappo mortuario ch’ella prepara per il suocero, Laerte, e che, nella poesia della nicaraguense Claribel Alegria, diventa un sudario per Ulisse, all’interno di una lettera in cui la sposa, stanca d’aspettare, denuncia al marito assente non solo la destinazione funebre della sua tela, ma addirittura la sua passione per un giovane abile nell’arco e nella lancia (p. 57).

Nell’Odissea, invece, «la credenza che un ritardo nel terminare la tela prolungasse la vita poté contribuire alla storia del sudario di Penelope per Laerte» (R. B. Onians, Le origini del pensiero europeo, Milano, Adelphi 1998, p.502).

Le scrittrici raccolte nell’antologia di Brigidina Gentile mostrano quante corrispondenze con il vissuto individuale possa avere ancora oggi un mito, quanta forza generatrice di scritture e riscritture esso susciti e quante letture anche conflittuali ne scaturiscano. Ma, a dire il vero, neanche gli esiti del mito sono univoci: le varianti sono tante quante le leggende che lo compongono. E se il poema omerico termina con l’insolito happy end degli sposi ritrovati, diverse tradizioni ci raccontano tutt’altra storia. Che Penelope, per esempio, si abbandono all’amore di uno dei Proci, Antinoo, ragion per cui fu da Ulisse restituita al padre Icario. O che avesse generato un figlio, Poliportes, ovvero che da Ermes avesse avuto Pan. Molto più romanzesco l’intreccio incestuoso narrato da Apollodoro, secondo il quale ella fini sposa a Telegono, figlio di Ulisse e Circe, mentre quest’ultima si univa a Telemaco. Ancora trame, orditi, fili che si spezzano e si riuniscono.

L’ultima connessione semantica del tessere e quella che ci riporta al testo come scrittura. E se tante nomadi della letteratura riconoscono in questo farsi e disfarsi, in questi nodi e scioglimenti, «l’idea della scrittura e, al tempo stesso, della resistenza della scrittura», come osserva la curatrice dell’antologia (p. 17), dobbiamo esser grate a questa nostra lontana sorella che, priva di alfabeto, di carta e di penna, ha saputo tramandarci un testo in cui tuttora ci riconosciamo come donne e come lettrici.

 

fonte http://www.artifara.com
Carla Perugini

Related Posts